muto incivile accondiscente permeabile

martedì 10 febbraio 2009

Intervista a Fabrizio De Andrè




Che cosa significa per te fare musica?
Fino a non molto tempo fa significava soprattutto divertirmi: era un modo per distrarsi, per occuparsi di qualche cosa. Che sia poi una necessità di comunicazione con gli altri, questo è tutto da vedere. Direi che soprattutto è una necessità di comunicazione con se stessi.

Già dalle tue prime canzoni ti sei occupato di problemi sociali. Perché?
Mi interessava raccontare storie di gente comune per capire di più il mondo in cui vivevo. Era una specie di autoanalisi. Poi ho trovato coinvolte in questo altre persone, prima quattro, poi quaranta, poi quattromila.

Come mai ti autoanalizzavi sui problemi sociali degli emarginati, delle puttane, o su problemi come quello dell’antimilitarismo (penso a “La guerra di Piero”)?
Come mai si diventa libertari? O hai frequentato un ambiente libertario, cosa che ho fatto fin dai diciotto anni, o altrimenti perché hai un impulso a pensare che il mondo debba essere giusto, che tutti debbano avere come minimo le stesse condizioni di opportunità per potersi esprimere ed evolvere. Mi ricordo del mio atteggiamento nei confronti della microsocietà in cui vivevo in campagna, quando avevo quattro anni. Ero sempre dai contadini, assimilavo molto più da loro che dai miei genitori, ero in mezzo alle bestie, volevo bene sia ai contadini sia alle bestie, ci stavo bene, li sentivo parte di me, più veri. Il discorso poi si è evoluto quando ho cominciato a chiacchierare con persone che erano dichiaratamente di fede anarchica.

Che influenza hanno avuto questi tuoi contatti?
Sicuramente decisiva per la mia formazione culturale, di tipo appunto libertario. In più mio padre mi portava incautamente i primi dischi di George Brassens perché lui aveva diversi contatti con la Francia. E Brassens era anche lui un libertario, le sue canzoni scavavano nel sociale. Brassens non è stato solo un maestro dal punto di vista didattico, per quello che può essere la tecnica per fare una canzone, è stato anche un maestro di pensiero e di vita. Mi ha insegnato per esempio a lasciare correre i ladri di mele, come diceva lui. Mi ha insegnato che in fin dei conti la ragionevolezza e la convivenza sociale autentica si trovano di più in quella parte umiliata ed emarginata della nostra società che non tra i potenti.

E ci sono altri che tu riconosci come maestri oltre a Brassens?
Direi di no. Ci sono sporadiche e momentanee attenzioni per altri grandi autori, come Jacques Brel. Anche lui ha fatto molte canzoni sociali, basti pensare a “Les bourgeois”. Ma ho avuto interesse, più di tipo estetico che sociopolitico, anche per Bob Dylan e Leonard Cohen.

Rispetto alle tue prime canzoni, che cos’è cambiato nel De André del 1993. Vedi delle grosse differenze?
Dal punto di vista dei contenuti direi che non è cambiato assolutamente niente. Dal punto di vista formale sicuramente mi sono evoluto, perché ho frequentato nel frattempo dei musicisti di rilievo. Ho cominciato con Giampiero Reverberi, che era già un ottimo musicista, ho continuato con Nicola Piovani, che adesso sta facendo le migliori musiche per film che escono in Italia, e poi Mauro Pagani che non è un musicista da conservatorio, come gli altri due, però è un musicista molto creativo.

Che significato ha la tua collaborazione con Mauro Pagani?
Con Pagani ho dato vita al desiderio di ritornare a parlare in maniera etnica. Abbiamo usato una lingua in disuso, con strumenti che erano in disuso. Penso a “Creuza de mä” e a quei quattro pezzi di matrice etnica che si trovano in “Nuvole”. Cercando di non confondere la musica etnica con quella folkloristica, perché la musica folkloristica è quella che fa il popolo per divertire le classi sociali più elevate. La musica etnica invece è quella che fa il popolo per se stesso. Dal punto di vista musicale Mauro aveva questo bagaglio culturale, perché era un ricercatore. Invece io sono un ricercatore del linguaggio e in più il genovese lo so da bambino per cui mi è stato abbastanza facile.

Che cosa ti proponevi facendo “Creuza de mä“, che in fondo è stato uno dei tuoi più grossi successi?
Da un punto di vista delle vendite direi che è stato il più scarso, perché noi puntavamo alle cinquantamila copie per sopravvivere. In effetti ne sono state vendute fino a oggi più di trecentocinquantamila, ma è stato un allargarsi a macchia d’olio. Lì per li è stato un impatto terribile. Mi ricordo che l’agente della Ricordi in Liguria mi ha incontrato e mi ha detto: ma che cosa hai fatto? Quel disco non lo capiscono neanche i genovesi.

Se ricordo bene “Creuza de mä” è stato premiato come miglior disco degli anni Ottanta.
È stato premiatissimo dalla critica. Ho avuto un diluvio di pacche sulle spalle. L’intendimento era inventare una musica etnica, con un linguaggio e strumenti sicuramente di matrice etnica. Solo questo. Non avevamo più voglia di seguire la traccia degli americani, del mondo anglofono e anche della loro musica. E quindi volevamo dare una svolta che in parte c’è stata. Perché dopo quel disco, molti hanno cominciato a suonare musica etnica con linguaggi locali, soprattutto nel sud.

Quindi è stata anche la riscoperta di un linguaggio autentico e autonomo rispetto a quella che è la globalizzazione della società?
Sì, è stata la voglia di sottrarsi alla dipendenza culturale di chi ha più fiato per suonare le trombe della pubblicità.

Nell’ultimo disco, “Nuvole”, del 1991, c’è una canzone particolarmente pessimista o disperante, “La domenica delle salme”. Perché l’avete scritta?
Volevamo esprimere il nostro disappunto nei confronti della democrazia che stava diventando sempre meno demo crazia. Democrazia reale non lo è mai stata, ma almeno si poteva sperare che resistesse come democrazia formale e invece si sta scoprendo che è un’oligarchia. Lo sapevamo tutti, però nessuno si peritava di dirlo. È una canzone disperata di persone che credevano di poter vivere almeno in una democrazia e si sono accorte che questa democrazia non esisteva più.

È dunque un atto d’accusa.
Sicuramente, e lo è anche nei nostri confronti. C’è una tirata contro i cantautori che avevano una voce potente per il vaffanculo, e invece non l’hanno fatto a tempo debito. Io credo che in qualche maniera la canzone possa influire sulla coscienza sociale, almeno a livello epidermico. Noto che ci sono tante persone che vengono nel camerino alla fine di ogni spettacolo e che mi dicono: siamo cresciuti con le tue canzoni e abbiamo fatto crescere i nostri figli con le tue canzoni. E non so fino a che punto sia una cosa giusta. Credo che in qualche misura le canzoni possano orientare le persone a pensare in un determinato modo e a comportarsi di conseguenza. A me è successo con Brassens, non vedo perché agli altri non possa succedere.

Oggi, se tu dovessi dare una definizione di De André, che cosa diresti, a livello musicale, politico e sociale.
Ho degli ideali precisi, quelli libertari che ho sempre avuto, solo che direi che sto aspettando che si verifichi almeno il decentramento del potere, per poter gestire in piccolo questo potere fino a creare isole di libertarismo. Dare una definizione è difficile perché sono tante cose; sono anche un allevatore di bestiame, sono una persona innamorata degli alberi, dell’acqua pulita.

In che misura il tuo essere libertario ha influito sul tuo fare musica?
Ma probabilmente per l’attenzione che ho avuto per il sociale. Mi sono reso conto delle grandi differenze che esistevano. Ho sempre tentato di giustificare e di scusare socialmente certe azioni che manifestamente erano magari delinquenziali per il fatto che le persone che le commettevano non avevano avuto quell’opportunità di poter essere uguali agli altri, soprattutto dal punto di vista economico, ma anche per l’impossibilità di studiare.

Sempre nelle “Nuvole” c’è una canzone in cui parli di un secondino. Dai voce al carceriere e c’è una nota di simpatia per lui.
Sicuramente sì, anche perché è un po’ analfabeta, infatti mi esprimo nella canzone in un napoletano maccheronico. Penso che anche lui sia una vittima delle circostanze politiche.

Una posizione un po’ diversa da quella espressa in un’altra canzone, del disco “Storia di un impiegato”, in cui dici: “Di respirare la stessa aria di un secondino non mi va”.
Con la differenza che in questo caso il secondino si rivolge a un boss della camorra, nell’altro caso era un militante dell’estrema sinistra che si rivolgeva a un secondino. Le posizioni sono completamente rovesciate. Là era il non potere che si rivolgeva al potere; in questo caso invece il potere vero appartiene al galeotto, il secondino non ne ha. È comunque divertente che il secondino sia in ogni caso un rappresentante dello stato. Ed è lo stato che si rivolge a un’organizzazione delinquenziale per ottenere dei favori. Questo è da sottolineare.
Però si tratta dell’ultimo gradino del potere statale.
Adesso viene fuori che lo si faceva anche ad alti livelli, non solo da parte di un povero secondino.

Quello che sta succedendo in Italia, incriminazione sia dei vertici della politica, sia dei vertici dell’industria, che cosa ti ispira? Farai una canzone su Tangentopoli?
Non credo proprio, anche perché non mi va di accoltellare i cadaveri. Non mi piace infierire.

Qual è la tua opinione su ciò che sta accadendo?
È un grande repulisti che ci fa soltanto bene. Il problema è di duplice natura: a forza di vedere la gente che entra ed esce dalla galera può accadere che non ci si faccia più caso, andare in galera diventerà probabilmente, nella memoria, collettiva, un fatto normale. In secondo luogo, il fatto di mettere in galera queste persone che hanno commesso crimini non è che ricostituisca una morale, è semplicemente un deterrente. Una morale la si ricostruisce in un centinaio di anni. Ormai c’è una nuova morale che si fonda su valori perversi: l’arricchimento immediato, il non guardare in faccia a nessuno pur di accumulare capitali.

Non sei molto ottimista per il futuro.
Non molto. Mi pare che adesso stiano semplicemente facendo ricerche su persone che hanno avuto a che fare con gli appalti pubblici, ma se dovessero andare a scavare, io credo che il 50-60 per cento degli italiani abbia commesso reati di questo tipo, cioè si è arricchita indebitamente. Le regole che pensavamo fossero alla base del vivere civile sono saltate, per ricostituirle ci vorrà probabilmente un periodo molto lungo. E con la nuova crisi economica rispunterà la povertà e attraverso la povertà forse si riscopriranno i valori della solidarietà.

Sarà possibile?
Probabilmente no, perché non arriveremo così in fondo da poter ricostituire il tessuto sociale su valori convincenti.

Però bisogna riconoscere che quello che ha fatto un giudice in un anno non è stato ottenuto con decenni di opposizione politica e questo ridà fiducia a un potere dello stato.
Il problema è che questo mutamento non è venuto da un largo movimento di massa ma da un potere dello stato. I giudici sono semplicemente delegati a usare questo potere deterrente che non ricostituisce la morale. Il giudice è un tecnico pagato dallo stato che applica il codice, fatto dai vertici dello stato, per comminare una pena. Il compito della sinistra dovrebbe essere quello di ricostruire una morale. (…)

Tu non sei un musicista che pubblica a getto continuo. Hai in progetto qualcosa di nuovo?
In questo momento avrei un progetto per qualcosa di nuovo, però è talmente fumoso e disordinato che prima di parlarne bisogna che faccia ordine nella mia testa. E poi in questo momento sono impegnato in concerti che faccio con fatica, con un certo timore reverenziale nei confronti del pubblico, nel timore di sbagliare. E un’attività che mi stanca molto e non mi lascia il tempo per pensare tranquillamente.

Quindi è prevedibile che passerà ancora qualche anno.
Almeno due anni, direi. Perché non penserò subito a un disco nuovo: non sono un pollo da allevamento. Spero di riuscire a pensare ad altre cose che mi permettano di evolvermi in altre direzioni. Non mi va di pensare che la mia vita debba essere fatta semplicemente dallo scrivere canzoni e andare sul palcoscenico. Ho un’azienda agricola, amici, interessi diversi.

Delle tendenze musicali contemporanee, quale ti interessa di più?
Direi che in questo momento c’è ben poco. C’è per esempio il metal, io sono poco portato verso questa musica che si può cantare poco. Direi che sono più portato ad ascoltare giovani che stanno recuperando antiche tradizioni popolari, soprattutto in Puglia. Attraverso una musica che in certi casi è rap, quindi d’importazione, ma in altri casi ha radici nella cultura musicale. Alcuni giovani stanno raccontando storie di tutti i giorni nella loro lingua originale. Ce ne sono un po’ dappertutto e questa forse è la cosa più interessante. E bisogna tenere presente che una canzone per essere riuscita dovrebbe avere due possibilità di lettura. Quindi canzoni che lì per lì possono sembrare canzoni di evasione, di amore, scavando puoi trovare anche il sociale. Magari chi l’ha scritta, l’ha fatto inconsciamente.

Puoi fare qualche esempio riferendoti a tue canzoni?
Per esempio la Canzone di Marinella. Non è nata per caso, semplicemente perché volevo raccontare una favola d’amore. È tutto il contrario. È la storia di una ragazza che a sedici anni ha perduto i genitori, una ragazza di campagna dalle parti di Asti. È stata cacciata dagli zii e si è messa a battere lungo le sponde del Tanaro e un giorno ha trovato uno che le ha portato via la borsetta dal braccio e l’ha buttata nel fiume e non potendo fare niente per restituirle la vita, ho cercato di cambiarle la morte. Così è nata la “Canzone di Marinella”, che se vogliamo ha anch’essa delle motivazioni sociali, nascostissime. Ho voluto completamente mistificare la sorte di Marinella. Non ha altra chiave di lettura se non quella di un amore disgraziato; se tu non racconti il retroscena è impossibile che uno pensi che all’origine c’era una gravissima problematica sociale. Certi fatti della realtà, soprattutto quand’ero giovane, mi davano un grande fastidio, allora cercavo di mutare la realtà.


(Tratto da Volontà “Note di rivolta”, 1993)

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